giovedì, novembre 27, 2008

LA LUNA OCCULTERÀ' IL PIANETA PIÙ BRILLANTE DEL CIELO

Matrimonio celeste fra Giove e Venere

Spettacolare «congiunzione astronomica» dei due pianeti fino ai primi giorni di dicembre

Matrimonio celeste fra Giove e Venere nel cielo del tramonto. I due pianeti, brillantissimi e visibili in queste sere si stanno avvicinando, fino a sfiorarsi, per dare luogo a uno spettacolo noto come «congiunzione astronomica» che comincerà mercoledì 26 novembre e durerà fino ai primi giorni di dicembre. Venere scintilla più bassa sull'orizzonte, Giove, meno luminoso, più in alto. Ma non è finita qui: lunedì 1 dicembre la scena si arricchisce con la presenza di uno spicchio di Luna crescente che si interpone fra i due astri e, poco dopo le 17, copre Venere, facendola scomparire per quasi un'ora e mezzo. Questo fenomeno prende il nome di occultazione lunare. L'inizio e la fine dell'occultazione variano da luogo a luogo. La tabella qui sotto indica gli orari per alcune città italiane.

CittàInizio occultazioneFine occultazione
Milano17h 08m18h 24m
Roma17h 21m18h 22m
Palermo17h 34m18h 13m
Trieste17h 17m18h 26m
Firenze17h 14m18h 25m
Cagliari17h 16m18h 20m
Lecce17h 43m18h 14m
Catania17h 44m18h 08m

La singolare vicinanza di Venere, Giove e della Luna è solo apparente: in realtà i tre corpi celesti si trovano ciascuno nella sua orbita attorno al Sole a una grande distanza recoproca. Se appaiono congiunti è solo un effetto prospettico. L'Unione degli Astrofili Italiani (UAI) ha organizzato osservazioni pubbliche sia a occhio nudo sia al telescopio, in varie città. L'elenco completo degli appuntamenti si trova nel sito Astroiniziative

Franco Foresta Martin

venerdì, novembre 07, 2008

 E' UTILIZZABILE DIRETTAMENTE PER ALIMENTARE I MOTORI

Il fungo-diesel che cresce sugli alberi

Scoperta in Patagonia una specie in grado di produrre una miscela chimica molto simile al gasolio

L'albero su cui cresce il fungo che potrebbe essere sfruttato per la produzione di biocarburante (da www.patagoniaplants.com)
L'albero su cui cresce il fungo che potrebbe essere sfruttato per la produzione di biocarburante (da www.patagoniaplants.com)

Nella foresta pluviale della Patagonia cresce un fungo che produce una sostanza del tutto simile al carburante diesel. La scoperta è stata fatta dallo scienziato americano Gary Strobel, che ha individuato per primo le qualità molto particolari di questo organismo endofita, che vive sulle foglie di un albero. 
Il Gliocladium roseum si nutre della cellulosa della pianta e produce il biofuel sottoforma di vapore, una peculiarità unica, mai scoperta prima d'ora nel mondo. Senza contare che il vapore è molto più semplice da estrarre, purificare e immagazzinare rispetto a un carburante liquido.

PRONTO PER L'USO - «Si tratta dell'unico organismo che generi una combinazione così importante di sostanze combustibili»- racconta Strobel - «eravamo completamente esterrefatti quando abbiamo capito che produceva una miscela di vari idrocarburi». Dal punto di vista chimico infatti non ci sono quasi differenze tra le molecole prodotte dal Gliocladium e quelle degli idrocarburi fossili, in particolare quelle contenute nel gasolio, come l'ottano. Inoltre contiene alcune componenti a basso peso molecolare che fanno sì che bruci in modo più efficiente e pulito rispetto al normale diesel. Il combustibile naturale potrebbe essere usato direttamente per alimentare un motore.

MEGLIO DI OGNI ALRO BIOFUEL - Il fungo diesel sarebbe meglio del bioetanolo derivato dalla canna da zucchero, quindi, ma anche di ogni altro combustibile naturale prodotto da alghe e batteri, grazie alla sua efficienza di rendimento. E avendo come base di crescita la cellulosa non dovrebbe dare nemmeno troppi problemi nella coltivazione intensiva, anche se gli scienziati sono cauti e preferiscono fare ancora qualche esperimento su bassa scala. «Raccoglieremo una quantità di carburante sufficiente per avviare un piccolo motore. Se riusciamo a fare questo, allora siamo sul mercato». Se funzionerà anche su larga scala, il «mico-diesel» potrebbe essere un'eccellente risorsa per migliorare la sostenibilità dei carburanti biologici e agevolare il raggiungimento dell'obiettivo europeo del 10 per cento di biofuel sul totale dei combustibili entro il 2020.

Valentina Tubino
04 novembre 2008

giovedì, ottobre 23, 2008

C'È CHI HA PENSATO CHE FOSSE UNA SFERA CAVA RIFUGIO PER I MARZIANI SOPRAVVISSUTI

Svelato il mistero di Phobos

Le ultime foto ravvicinate del satellite di Marte smentiscono tutte le ipotesi fantascientifiche

Gli hanno dato il nome greco della paura, Phobos, perché fin dall’inizio è apparso un oggetto inquietante, anomalo. E’ il maggiore dei due satelliti di Marte, ma per noi terrestri, abituati ad avere una Luna grande e splendente, sembra piuttosto un pezzo di roccia cosmica finito lì per caso. Di piccolissimo diametro, appena una ventina di chilometri, leggerissimo pur se rapportato alle sue modeste dimensioni, caratterizzato da un moto di rotazione frenetico, tanto che gira strettissimo attorno a Marte in appena 7 ore e 39 minuti, Phobos, più che il satellite della paura è quello del mistero.


SATELLITE ARTIFICIALE? - Alcuni astronomi si sono sbizzarriti a descriverlo come una sfera cava all’interno, altri addirittura come un satellite artificiale costruito dai marziani. Ora il mistero sembra svelato: Phobos sarebbe un «mucchio di ghiaia e di sabbia». Lo ipotizzano gli scienziati che stanno analizzando i dati raccolti da Mars Express, una sonda spaziale automatica dell’Agenzia spaziale europea in orbita attorno a Marte, di cui sta riprendendo foto ravvicinate della superficie e dei suoi due satelliti. Grazie alle immagini in tre dimensioni di Phobos (le possiamo ammirare sul sito http://photojournal.jpl.nasa.gov/target/Phobos), gli scienziati hanno potuto calcolare, con una precisione mai raggiunta prima, la massa e il volume dell’enigmatica luna di Marte e ricavarne la densità media, che è risultata di 1,85 grammi per centimetro cubo, cioè di gran lunga inferiore a quella della nostra Luna che è di 3,5 grammi per centimetro cubo.

MUCCHIO DI GHIAIA - La notevole leggerezza di Phobos avvalora l’ipotesi che il satellite, sotto una superficie di polveri dello spessore di circa 100 metri , del tutto simile a quella lunare, disseminata di crateri grandi e piccoli, non nasconda un nucleo compatto, ma aggregati di sassi tenuti insieme dalla forza di gravità e separati da cavità: insomma, una struttura a rubble pile(mucchio di ghiaia) , come dicono gli esperti. Tale struttura, secondo gli studiosi dei corpi minoridel sistema solare, sarebbe propria a molti asteroidi con densità altrettanto bassa. Degli asteroidi a mucchio di ghiaia, gli specialisti stanno tentando di realizzare un archivio computerizzato con lo scopo di escluderli da esperimenti spaziali che ne potrebbero compromettere l’integrità. Infatti, se si frammentassero in miliardi di corpi, in seguito a qualche impatto provocato da sonde spaziali, rappresenterebbero, per la Terra, uno sciame potenzialmente distruttivo.

LE IPOTESI FANTASCIENTIFICHE - All’inizio degli anni ’60, l’astrofisico russo Iosif Shklovsky, che è stato un amico e collaboratore del più noto Carl Sagan, sbalordì la comunità scientifica avanzando l’ipotesi che Phobos fosse un satellite artificiale messo in orbita da civiltà marziane, arrivando ad azzardare che la sua superficie potesse essere una sfera metallica. Il fisico Fred Singer, a quei tempi consulente scientifico del presidente Eisenhwer (e oggi uno dei più noti negazionisti delle responsabilità umane sul cambiamento climatico), gli andò dietro aggiungendo che il satellite serviva alla sopravvivenza dei marziani. Anni dopo, le prime foto ravvicinate del satellite di Marte, irregolare e butterato come una patata, smentirono entrambi. Ma il mistero di Phobos è rimasto, alimentato anche da enormi striature che lo cingono per intero e che sono difficili a spiegarsi come raggiere provocate dagli ejecta dei crateri. Chissà se ora, con l’ipotesi del ‘rubble pile’, sia arrivato il momento di affrancare Phobos dalla immotivata «paura» suscitata dal suo nome.

da corriere scienza del 22-10-08

mercoledì, ottobre 22, 2008

gente, esiste un blog che è troppo il meglio, vi ricordate la storia dei bosoni? ecco un altro post preso da li:

http://www.bivacco.net/marco/index.php/scienza-con-oliver/

La statistica degli eventi improbabili spiegata a Oliver Ottobre 12, 2008

Da qualche giorno Oliver mi guarda in cagnesco. In teoria non dovrebbe essere un problema, perché Oliver è a tutti gli effetti un cane. Il punto è che Oliver ha passato i suoi primi mesi di vita con una gatta, e questo lo ha piuttosto “felinizzato”. Chiariamoci, è sempre incredibilmente lineare, fedele e scemotto come un cane. Però saltella come un gatto quando caccia, e guarda in cagnesco solo in due casi: vuole assolutamente giocare a “tirami l’osso ed io ringhio feroce”, oppure è preoccupato. Le preoccupazioni di Oliver comprendono l’eccessiva vicinanza di qualcuno alla sua ciotola, un infante nella sua cuccia, o la sparizione di uno dei padroni per più di cinque minuti. Ma oggi sembra esserci qualcosa di nuovo. “Cosa c’è? Sputa il rospo!” “Non mangio rospi da quella gita in montagna…” “Uff” “Beh, anche se sono un cane a volte ascolto quello che si dice in giro. Tu stai costruendo un macchinone che ci ucciderà tutti. Si, insomma, quell’acceleratore elleaccacci a cui lavori, dicono che potrebbe distruggere il mondo con un buco nero o con qualche altra terribile cosa… ” (Oliver è un cane pavido) “… puoi garantirmi che la cosa è sicura, che non c’è pericolo?”.

Ahi ahi ahi, come faccio questa volta? Con il bosone di Higgs me l’ero cavata con la storia della melassa, ma questa volta mi tocca tirare in ballo la statistica, e statistica vuol dire numeri: Oliver sa contare, ma non gli piace farlo. Vabbé, proviamo.

Allora, Oliver, ascolta, ci sono due cose importanti che devi cercare di capire (Oliver assume la sua consueta faccia concentrata). La prima è questa: la scienza non può garantire nulla in modo assoluto. Non può dire “mai”, o “sempre” (lampo di terrore negli occhi di Oliver. Io continuo imperterrito). Per esempio, nella vita comune diciamo che la tua razione si pappa quotidiana (di nuovo rilassato e attento, conosco il mio pollo!) pesa 400 grammi. In realtà il massimo che la scienza può dire è che - con una certa probabilità - il peso della tua pappa è contenuto in un intervallo centrato sul valore di 400 grammi; intervallo che ha una larghezza che dipende da tanti fattori, ma principalmente dalla bilancia che abbiamo usato per pesare la pappa. Nella vita quotidiana questo intervallo è sufficientemente piccolo rispetto al peso totale della tua pappa, e finisce che ce ne dimentichiamo e usiamo solo il valore centrale. Allo stesso modo, la scienza non può mai dire che un avvenimento non avverrà mai, perché sappiamo solo calcolare la probabilità di un avvenimento (e in certi casi non ne siamo neanche capaci, ma di questo parliamo dopo). Tu capisci che cosa è la probabilità di un avvenimento, vero?

Se dico che hai il 50% di probabilità che io ti dia un biscotto ogni volta che usciamo in passeggiata, vuol dire che riceverai in media un biscotto ogni due passeggiate. E siccome usciamo in passeggiata due volte al giorno, in un anno riceverai in media 365 biscotti. Ma magari non proprio uno al giorno, che un giorno potresti riceverne due (Oliver sbava) e un altro nessuno (tristezza negli occhi). Adesso diciamo - ma solo per scherzo, eh! - che la probabilità che io ti dia un biscotto durante una passeggiata sia 10^{-20} (Oliver - che conosce bene la notazione esponenziale - impallidisce, lo vedo persino sotto il pelo): cosa vorrebbe dire? “Un cane salsiccio meticcio longevo come me ha un’aspettativa di vita di 20 anni: se conto due passeggiate al giorno fanno 7300 passeggiate nella vita: non avrei mai nessun biscotto. E nemmeno se uscissi dieci volte al giorno!”. Beh, sono sicuro che adesso capisci: questa è la migliore definizione di “mai” che la scienza possa dare! Un evento estremamente improbabile ha una probabilità piccolissima, sebbene diversa da zero: l’inverso della probabilità ti dice quante volte dovresti “tirare il dado” (o uscire in passeggiata, o far sbattere un protone contro l’altro) per far avvenire almeno una volta (in media) quell’evento. Se questo numero è enormemente più grande delle tue possibilità di tirare il dado (o di uscire in passeggiata nella tua vita, o di far sbattere un protone contro l’altro nell’arco della vita di tutto l’Universo), allora puoi rilassarti e dirti che l’evento non avverrà “mai”. Pur continuando ad essere (pochissimamente) probabile!

Rincariamo la dose: esiste una probabilità che io e te, adesso mentre passeggiamo, transitiamo per un fenomeno che si chiama tunnel quantistico nel centro della terra e moriamo di una morte orribile. Diciamo, approssimando, che la probabilità sia circa di 10^{-500}. Il suo inverso, contato in numero di interazioni tra atomi, è maggiore (e di molto!) dell’età dell’universo. E infatti nessun uomo e nessun cane si preoccupa che un tale evento possa accadere!

Ma qui arriva la seconda cosa di cui ti devo parlare. I biscotti in passeggiata o il tunnel quantistico degli atomi sono eventi che conosciamo e abbiamo osservato: sappiamo calcolarne la probabilità. Ma come facciamo per gli eventi che non sono mai accaduti? Come i buchi neri prodotti da LHC, o l’apparizione di draghi ferocissimi da un’altra dimensione nella tua cuccia quando vai a dormire? Semplice: non possiamo! Non è possibile calcolare una probabilità per un evento che non è mai accaduto. Quello che possiamo fare però è una cosa molto comune nella scienza: possiamo mettere dei limiti, ovvero possiamo dire che un certo evento mai osservato, se dovesse esiste, ha una probabilità di accadere inferiore a una certo valore. Come faccio il calcolo? Per esempio, potrei contare quante volte nella storia della terra i cani sono andati a dormire nella loro cuccia, e i draghi ferocissimi da un’altra dimensione non sono apparsi (perché no, stai tranquillo, per adesso non è mai accaduto). La probabilità dell’evento-draghi sarà inferiore all’inverso di questo numero. “Che è un numero grande!” - guaisce Oliver, che ormai ha capito l’antifona, dunque una probabilità piccola, dunque… E per esempio puoi calcolare quante interazioni tra due protoni di energia simile a quella delle collisioni di LHC sono avvenute in natura dall’inizio dell’universo: è di nuovo un numero molto grande. E siccome non abbiamo avuto buchi neri catastrofici o draghi che abbiano inghiottito l’universo, puoi mettere un limite superiore alla probabilità di questi eventi, e confrontarla con il numero di collisioni che avverranno a LHC. Che è la migliore approssimazione di “non accadrà mai a LHC” che puoi dare. Soddisfatto?

Oliver sembra decisamente più sereno di quando siamo usciti di casa. Di colpo si ferma, si siede e gonfia il petto: “Se dovessimo finire nel centro della terra per quel tunnel-quanto-non-mi-ricordo-bene, io sarei fiero di morire al tuo fianco! Posso avere un biscotto, adesso?”.

Il risultato di diverse spedizioni di un erpetologo del museo di Trento

Animali mai visti: 17 nuove specie
scoperte in una foresta in Tanzania

Trovati rettili e anfibi sconosciuti in una remota regione inesplorata sui Monti Nguru

C’è solo una strada che passa nell’interno della Tanzania: parte dalla capitale Dar es Salam, sulla costa, e attraversa tutto il paese. Dopo quattro ore di macchina, in direzione della città di Dodoma, si cominciano a vedere in distanza i picchi rocciosi che sbucano in cima alla catena dei Monti Nguru, coperti dalla foresta pluviale e quasi sempre avvolti in una fitta nebbia. E’ lì in mezzo, cioè in uno dei luoghi finora meno esplorati della terra, che Michele Menegon, ricercartore del Museo Tridentino di Scienze Naturali, ha scoperto 17 nuove specie di rettili e anfibi. Per quanto se ne sa fino ad ora queste rane, rospi, camaleonti e serpenti, che nessun occhio umano aveva mai visti finora, e che non hanno ancora un nome, vivono solo su queste montagne. Dopo diverse spedizioni, per un totale di oltre due mesi interi trascorsi tra i 700 e i 2400 metri, sono state catalogate 97 specie di rettili e anfibi e, tra queste, 17 sono appunto risultate totalmente sconosciute. Molte altre rischiano di restarlo per sempre, visto che possono estinguersi a breve, prima che l’uomo ne scopra l’esistenza. Questa foresta montana, che si estende su un’area di circa 180 km quadrati, è minacciata dalla pressione da parte delle popolazioni indigene che vivono ai suoi margini. La gente dell’altopiano taglia e brucia gli alberi per far posto alle coltivazioni di mais, patate e altri ortaggi. Prima ancora di avere un nome, quindi, molti di questi organismi che abitano questa zona rischiano di scomparire

VITA IN FORESTA - Michele Menegon, nella foresta della Tanzania sui monti Nguru, i leopardi li ha incontrati diverse volte. Sempre di notte, sempre da solo. «Una sola ho avuto paura, quando lo sentivo ma non lo vedevo. Capivo che era a una decina di metri circa, sentivo il soffio rauco, ma non riuscivo a vederlo». Le altre volte, invece, gli occhi del leopardo sono sempre finiti, nel fascio di luce della torcia di Michele. E questo lo tranquillizzava: «In questi casi non ho provato paura. E’stato come se si congelasse tutto intorno a me, ma non avevo paura. Sono solo rimasto fermo e lui se ne è andato. Del resto noi non siamo sue prede». Quello di Menegon non è un lavoro come un altro. Fa l’erpetologo, cioè un ricercatore che studia rettili e anfibi; è una via di mezzo tra un esploratore e uno scienziato.

LE SPEDIZONI - Stare settimane nella “msituni kabisa”, nel cuore della foresta, come dicono le guide e i portatori che accompagnano queste spedizioni, non è impresa semplice. Per cinque ricercatori servono almeno 12 portatori, per un bagaglio complessivo di due quintali e mezzo. Per trovare rettili e anfibi ci sono due condizioni ideali: la stagione delle piogge, quando la foresta è al suo massimo di umidità, e il buio. E’ per questo che mentre gli altri dormono nel campo, Michele va in giro per la foresta con le sue torce.

LA SCOPERTA - La molla che lo spinge è quella di cercare di essere il primo uomo ad avere tra le mani un essere vivente che nessuno, fino a quel momento, aveva mai visto. E poi studiarlo, dargli un nome e presentarlo alla comunità scientifica. Tra le 17 specie scoperte ce n’è stata una che lo ha colpito più di altre. “Era diventato buio da poco. Mi ero mosso solo di qualche decina di metri dal campo – racconta Menegon - e stavo ascoltando i canti che arrivavano dai rami degli alberi. Distinguo un hyperolius, piccola rana gialla che conosco bene ma sento anche un altro canto più sommesso, che ricorda quello di altre specie di calluline incontrate su altri massicci montuosi. Era diverso: frequenze più basse, con una ripetizione delle note più lenta, e di norma il canto delle calluline conosciute finora proviene sempre dai rami degli alberi, mentre questo arriva dal basso. Cerco con la pila tra le foglie alla base di un grosso albero e vedo una grossa rana seminascosta (foto). La guardo nella luce della torcia frontale, e sono subito certo che si tratta di una specie nuova: appartiene al genere delle Calluline, ma è completamente diversa da quelle note fino ad oggi: più grande con grosse ghiandole chiare sulle zampe, colorata e con la pelle che produce riflessi metallici. Ha occhi arancioni e un colore mai visto. L’ho messa nella sacca e sapevo di aver iniziato bene il giro quella sera”.

Stefano Rodi
20 ottobre 2008(ultima modifica: 22 ottobre 2008)

venerdì, giugno 13, 2008

bah, mi è arrivata questa info...e di sicuro male non fa!

Sapete dove buttare l'olio della padella dopo una frittura fatta in casa?
Sebbene non si facciano molte fritture, quando le facciamo, buttiamo
l'olio usato
nel lavandino della cucina o in qualche scarico, vero?
Questo è uno dei maggiori errori che possiamo commettere.
Perchè lo facciamo? Semplicemente perchè non c'è nessuno che ci spieghi
come farlo
in forma adeguata.
Il meglio che possiamo fare è ASPETTARE CHE SI RAFFREDDI e collocare
l'olio usato in
bottiglie di plastica, o barattoli di vetro, chiuderli e metterli nella
spazzatura.
UN LITRO DI OLIO rende non potabile CIRCA UN MILIONE DI LITRI D'ACQUA,
quantità
sufficiente per il consumo di acqua di una persona per 14 anni.
Se poi siete così volenterosi di conferirlo ad una ricicleria pubblica ancora
meglio, diventerà biodiesel o combustibile.

giovedì, maggio 29, 2008

Nel 2007 tutti e due i dati a favore del vento. E tra il 2008 e il 2012
la produzione effettiva sarà di due volte e mezza superiore

Nuovi impianti ed energia prodotta
L'eolico ha sorpassato il nucleare

Negli Stati Uniti, il 30 per cento della potenza installata viene dall'eolico
In attesa dei reattori di quarta generazione il contributo dell'atomo scenderà
di ANTONIO CIANCIULLO


Nuovi impianti ed energia prodotta
L'eolico ha sorpassato il nucleare" width="230">

ROMA - Il 2007 è stato l'anno del sorpasso: a livello globale, dal punto di vista dei nuovi impianti, l'eolico ha battuto il nucleare. L'anno scorso sono stati installati 20 mila megawatt di eolico contro 1,9 mila megawatt di energia prodotta dall'atomo. E' un trend consolidato da anni e destinato, secondo le previsioni, a diventare ancora più netto nei prossimo quinquennio. Ma non basta. Per la prima volta l'eolico ha vinto la gara anche dal punto di vista dell'energia effettivamente prodotta. I due dati non coincidono perché le pale eoliche funzionano durante l'anno per un numero di ore inferiore a quello di impianto nucleare e dunque, a parità di potenza, producono meno elettricità.

GUARDA LA TABELLA

"La novità è che, anche tenendo conto di questo differenziale di uso, nel 2007 l'eolico ha prodotto più elettricità del nucleare", spiega Gianni Silvestrini, direttore del Kyoto Club. "E gli impianti eolici che verranno costruiti nel periodo 2008 - 2012, quello che chiude la prima fase degli accordi del protocollo di Kyoto, produrranno una quantità di elettricità pari a due volte e mezza quella del nuovo nucleare. Se poi nel conto mettiamo anche il solare fotovoltaico e termico possiamo dire che, tra il 2008 e il 2012, il contributo di queste fonti rinnovabili alla diminuzione delle emissioni serra sarà almeno 4 volte superiore al contributo netto prodotto dalle centrali nucleari costruite nello stesso periodo".

La tendenza è consolidata anche dal risveglio del gigante americano. Il 30 per cento di tutta la potenza elettrica installata durante il 2007 negli Usa viene dal vento e il dipartimento federale dell'energia prevede che entro il 2030 l'eolico raggiunga negli States una quota pari al 20 per cento dell'elettricità creando un'industria che, con l'indotto, darà lavoro a mezzo milione di persone. E' un dato in linea con l'andamento di paesi europei come la Danimarca (21 per cento di elettricità dall'eolico), la Spagna (12 per cento), il Portogallo (9 per cento), la Germania (7 per cento).

Nonostante le scelte dell'amministrazione Bush, che ha incentivato con fondi pubblici la costruzione di impianti nucleari, negli Stati Uniti l'energia dall'atomo resta invece ferma, sia pure a un considerevole livello, da trent'anni: l'ultimo ordine per una nuova centrale risale al 1978. Nell'aprile scorso sono stati annunciati impegni per 38 nuovi reattori nucleari, ma è molto probabile che il numero scenda drasticamente, come già è avvenuto in passato, nel momento in cui si passa alla fase dei conti operativi: le incertezze legate ai costi dello smaltimento delle scorie, ai tempi di realizzazione e allo smantellamento delle centrali a fine vita hanno rallentato la corsa dell'atomo.

In attesa della quarta generazione di reattori nucleari, che però deve ancora superare scogli teorici non trascurabili e non sarà pronta prima del 2030, le stime ufficiali prevedono una diminuzione del peso del nucleare nel mondo. La Iea (International Energy Agency) calcola che nel 2030 la quota di elettricità proveniente dall'atomo si ridurrà dall'attuale 16 per cento (è il 6 per cento dal punto di vista dell'energia totale) al 9-12 per cento.

(23 maggio 2008)

Si punta ai impianti di terza generazione per coprire il 10% dei consumi nazionali

Quattro centrali entro il 2020
Ecco il piano nucleare dell'Enel

Una legge delega, poi l'individuazione dei siti e dell'area per lo stoccaggio
Per la gestione anche l'opzione del consorzio con le altre aziende produttrici
di MARCO PATUCCHI


Quattro centrali entro il 2020
Ecco il piano nucleare dell'Enel" width="230">

La centrale nucleare Enel di Caorso

ROMA - Quattro centrali di terza generazione che nel 2020 copriranno almeno il 10% dei consumi di energia in Italia, vale a dire 6000 megawatt, più il sito per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Un progetto gestito o dalla sola Enel o da un consorzio guidato dal gruppo pubblico e composto dalle altre aziende produttrici (Edison, Eni, Sorgenia, le ex municipalizzate...) e dalle industrie energivore. Il tutto in un quadro normativo certo e definito.

La "ricetta" dell'Enel per il ritorno al nucleare è ormai pronta: l'amministratore delegato del colosso elettrico, Fulvio Conti, la presenterà al governo nei prossimi giorni consegnando un piano articolato al quale i tecnici del gruppo lavorano ormai da qualche mese e che, ora, si inserirà nel solco dell'accelerazione impressa dal ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola. "Entro cinque anni la prima pietra delle nuove centrali nucleari italiane", è l'impegno del ministro annunciato giovedì all'assemblea di Confindustria, e il progetto dell'Enel stima una tabella di marcia teorica che si spalma su nove anni: due per l'allestimento del contesto normativo, due per l'iter delle autorizzazioni, quattro per la costruzione e uno da conteggiare per eventuali ritardi in corso d'opera.

La tecnologia indicata è quella del nucleare di "terza generazione migliorata", dal momento che i vertici dell'Enel non vedono prospettive temporali praticabili per le centrali di quarta generazione (quelle, per intenderci, che non produrranno scorie radioattive); verrebbe sfruttata al meglio, inoltre, la competenza tecnologica acquisita dagli uomini del gruppo nel corso degli ultimi anni al di fuori dall'Italia, ovvero in Slovacchia attraverso la Slovenske Elektrarne, in Spagna attraverso l'Endesa e in Francia con la partecipazione al progetto Epr.

Il piano si dispiega su tre livelli. Innanzitutto quello normativo, con la previsione di una legge delega che fissi il contesto nel quale poi collocare singoli provvedimenti su autorizzazioni e controlli. "Una legge - è la tesi espressa a più riprese da Conti - che, modificando il titolo V della Costituzione (ripartisce le competenze tra Stato ed enti locali, ndr) presenti a Comuni e Regioni un percorso ben definito. Si tratterebbe, in sostanza, di riportare le scelte strategiche al livello più alto della politica, cioè al Parlamento e non alla singola amministrazione locale, completando inoltre la filiera del nucleare con il collegamento a università e alla ricerca".

Il secondo livello del progetto riguarda l'identificazione delle zone del Paese dove dislocare le centrali e il sito per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Enel nel documento non fa nomi, lasciando la scelta ad una parte terza - dunque, governo e Parlamento - alla quale vengono comunque sottoposti i criteri classici di valutazione utilizzati a livello internazionale (rischi sismici e di esondazione, densità abitativa). In questo senso, la pole position spetterebbe ai territori che già ospitano impianti nucleari (quelli realizzati e poi disattivati dal referendum del 1987 - Latina, Trino, Garigliano, Caorso - o bloccati in corso d'opera, come Montalto), mentre per quanto riguarda il sito di stoccaggio delle scorie, i ragionamenti dei tecnici non escludono la scelta di un impianto provvisorio, lasciando inoltre sul tavolo sia l'opzione dell'interramento che quella del deposito in superficie.

Terzo livello, infine, sugli aspetti finanziari. Il piano non fissa una stima certa sul costo complessivo del progetto, mettendolo in relazione alle varie opzioni tecnologiche attualmente a disposizione dell'Enel: da quella nipponico-americana della Westinghouse (utilizzata in Spagna), a quella francese dell'Epr, a quella russa presente in Slovacchia. Stesso discorso per il problema delle coperture assicurative e delle formule di finanziamento. Un'aleatorietà finanziaria che caratterizza il piano di Enel, ma non il report diffuso ieri da Ubs: secondo la banca svizzera, l'approdo dell'Italia al nucleare entro il 2020-23 comporterebbe per il gruppo controllato dal ministero dell'Economia un aumento del valore nominale di 2 miliardi di euro ogni 1.000 megawatt di potenza installata. Vale a dire un beneficio di 0,1 euro ad azione per i soci Enel.


(24 maggio 2008)

Sul Lago Natron si riproducono i tre quarti della popolazione mondiale di questi uccelli
I progettisti indiani: "Lo faremo a 35 km dal sito". Gli ambientalisti: "Moriranno lo stesso"

Tanzania, la salina della discordia
un milione di fenicotteri a rischio

di CRISTINA NADOTTI




Tanzania, la salina della discordia
un milione di fenicotteri a rischio"

Fenicotteri sul Natron

Per il loro piumaggio e la loro grazia i fenicotteri in Africa sono il simbolo di quanto è puro e incontaminato. Il regno assoluto di una specie a forte rischio di estinzione, il fenicottero minore, è il lago salato Natron, in Tanzania, vicino al confine con il Kenya lì vivono e si riproducono i tre quarti della popolazione mondiale di questi uccelli, approfittando di un habitat troppo caustico per la maggior parte dei loro predatori. Si parla di una popolazione di un milione di pennuti. E proprio lì sta per sorgere un'industria di produzione del carbonato di sodio che potrebbe distruggere questo ambiente. Le associazioni ambientaliste non hanno dubbi: fabbrica e benessere dei fenicotteri sono incompatibili, ma il governo di Dar el Salaam non vuole rinunciare ai proventi di un impianto industriale.

Il progetto a partecipazione indiana. L'industria chimica nascerà da una compartecipazione tra lo stato africano e la compagnia indiana Tata Chemicals. Gli impianti sorgeranno a 35 chilometri dalle rive del lago, cosa che, secondo i rappresentanti dell'agenzia tanzaniana per la promozione allo sviluppo, basterà a proteggere i fenicotteri. Gli ambientalisti argomentano però che il problema non è tanto la fabbrica in sé, quanto l'utilizzo delle lago. Le acque del Natron - unico luogo di riproduzione del fenicottero minore nell'Africa orientale da 45 anni - hanno, come quelle di tutti i laghi salati, un delicato equilibrio chimico: il loro utilizzo a scopi industriali verosimilmente ucciderà le alghe, che sono il principale cibo dei fenicotteri e danno loro il caratteristico piumaggio rosa.

Proteggere gli animali, assicurano dal governo, è la prima preoccupazione, visto che il lago Natron è una delle attrazioni turistiche del Paese. "Ci stiamo impegnando per provare scientificamente che la produzione di carbonato di sodio non danneggerà il lago, che ha in effetti una sua capacità di rigenerarsi".

Un prodotto altamente inquinante. Il carbonato di sodio o carbonato neutro di sodio (Na2CO3) è noto da millenni e usato per produrre il vetro e come ingrediente nei detersivi. Per secoli è stato ricavato, in forma abbastanza impura, da alcuni laghi salati o dalle ceneri delle piante. Nella storia degli agenti inquinanti il carbonato di sodio ha un triste primato: i primi movimenti di protesta popolare e le prime leggi di difesa dell'ambiente nacquero proprio contro le industrie chimiche che lo producevano. L'Alkali Act fu, nel 1863, la prima legge inglese contro l'inquinamento atmosferico provocato dall'industria chimica, e nacque proprio contro una fabbrica che produceva il carbonato di sodio.

Le ricerche scientifiche sui fenicotteri. Uno studio pubblicato lo scorso marzo dall'Università di Leicester, in Gran Bretagna, ha già dimostrato quanto sia delicato l'ecosistema dei fenicotteri. "I laghi in cui questi uccelli prosperano in Africa - dice il biologo David Harper - non sono toccati da attività umane. Al contrario, la morte improvvisa di alcune colonie di fenicotteri in laghi dell'Africa Orientale negli ultimi 15 anni è da attribuire alla concentrazione di industrie in queste zone". Lo studio di Harper ha però individuato anche un'altra particolarità. I fenicotteri vivono, oltre che in Africa principalmente nella Rift Valley, anche in Pakistan e India. "È stato per me un vero shock vedere i posti in cui le colonie si stabiliscono in India - riferisce Harper - i fiumi e i laghi in cui vivono sono talmente inquinati da industrie e attività umane che la puzza si sente a migliaia di chilometri di distanza, eppure i fenicotteri sono di uno splendido colore rosa e i nostri rilevamenti mostrano che godono di ottima salute".

Il gruppo dell'Università di Leicester sta ora cercando nuovi fondi per capire meglio come mai i due ambienti possano creare situazioni tanto diverse, ma c'è già un primo elemento da cui partire: la caratteristica dei laghi africani. Le acque dolci di Kenya e Tanzania hanno, infatti, una maggiore concentrazione di carbonato di sodio, proprio quello che l'industria del lago Natron vuole estrarre.

Una battaglia aperta. In Tanzania si è già costituito un gruppo di associazioni ambientaliste, il "Lake Natron Consultative Group" che ha promesso di portare avanti in tutti i modi la battaglia contro la costruzione dell'industria. Per Paul Matiku, dell'associazione "Nature Kenya", i fenicotteri del lago Natron potrebbero estinguersi in cinque anni se il loro habitat sarà distrutto. "Mi chiedo quale sia l'interesse del governo - sottolinea - il turismo naturalista è uno dei primi introiti per Kenya e Tanzania, se uccideremo i nostri animali lo metteremo a rischio".
Non è un caso che a parlare sia un keniano: proprio alle popolazioni di fenicotteri del Kenya si riferiscono gli studi sulla moria di animali fatti dal biologo inglese.
I gruppi ambientalisti hanno in progetto il finanziamento di studi approfonditi sui costi e benefici del programma industriale vicino al lago Natron. È chiaro che la battaglia si combatterà sul piano economico: il governo sottolinea che la fabbrica darà lavoro a 100 persone e fornirà alla Tanzania una materia prima a costi minori, visto che al momento il sodio carbonato è comprato dal Kenya. Si tratterà di vedere se gli ambientalisti riusciranno a dimostrare che i fenicotteri sono un prodotto che vale più di una materia prima di uso industriale.

(6 maggio 2008)

Studio dell'Università di Bologna sulla sostenibilità delle colture energetiche
Ideali quelle che non fanno consumare acqua e non alterano la produzione di alimenti

Biocarburante? Solo se economico
Sì al sorgo, no a colza e girasole

Dalla Germania la seconda generazione: bioetanolo dalla cellulosa degli scarti boschivi
L'esperto: "Giusto sapere cosa conviene all'ambiente, ma il caro-cibo ha altre cause"
di VALERIO GUALERZI


Biocarburante? Solo se economico
Sì al sorgo, no a colza e girasole" width="230">

Etanolo da mais

ROMA - I buoni da una parte, i cattivi dall'altra, come si faceva una volta sulla lavagna di scuola. Su una colonna il sorgo da fibra e il sorgo zuccherino, le colture che possono essere trasformate in energia dando davvero una mano all'ambiente, perché al contrario di altre crescono in ambienti molto aridi e generano prodotti non utilizzabili dalla catena alimentare; sull'altra colonna la colza, le barbabietole e il girasole, che per crescere hanno bisogno di una quantità di acqua, concimi ed energia tali da rendere il gioco molto più costoso della candela. In mezzo, con risultati variabili ma il rischio di entrare in conflitto con la produzione di cibo, i cereali come il grano, l'orzo e il mais.

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Sul banco degli imputati. A realizzare la classifica è uno studio dell'Università di Bologna ancora inedito che verrà presentato al Congresso della Società Europea di Agronomia in programma a settembre. La ricerca arriva in un momento quanto mai opportuno, con la corsa ai biocarburanti decisa dall'Unione Europea e dall'amministrazione Bush sotto processo con l'accusa di essere responsabile della fiammata nei prezzi dei generi alimentari.

La Piattaforma biofuels. A coordinare lo studio è stato il professor Gianpietro Venturi, docente di Agronomia generale e colture presso l'ateneo bolognese Alma Mater e presidente della Piattaforma italiana per i biocarburanti, una struttura creata su indicazione dell'Ue per organizzare le sinergie tra tutti i protagonisti della filiera: agricoltori, mondo scientifico, industria e istituzioni.

Gli orientamenti europei. "A leggere le cifre senza pregiudizi - spiega il professor Venturi - penso si possa affermare con serenità che la spinta per la diffusione di bioetanolo e biodiesel sono un fattore molto marginale nel recente boom dei prezzi alimentari. I motivi della fiammata sono altri, i maggiori consumi di Cina e India e una sequenza di fattori climatici negativi. Ciò non toglie che il pericolo di azzerare i vantaggi ambientali dei biocarburanti puntando su colture sbagliate esiste. Ne è consapevole la stessa Unione Europea, alla quale consegneremo le nostre conclusioni. Bruxelles sta discutendo infatti di fissare al 50% la quantità di anidride carbonica non immessa nell'atmosfera come soglia minima di emissioni risparmiate per dichiarare un biocarburante sostenibile. Allo stesso modo sta pensando di stabilire che il 50% del biocarburante utilizzato in Europa (l'ambizione della direttiva è arrivare al 10% dei consumi entro il 2020) debba essere di seconda generazione".

Obiettivo seconda generazione. Per "seconda generazione" si intende prevalentemente l'estrazione di bioetanolo dalla cellulosa degli scarti boschivi e di piante "povere", un procedimento ancora in via di perfezionamento, ma sul quale vengono riposte grandi aspettative. In Germania recentemente è stato aperto uno dei primissimi impianti di questo genere al mondo. Anzi, in un certo senso potrebbe essere definito persino di terza generazione, visto che nello stabilimento inaugurato dalla cancelliera Angela Merkel a Freiberg, l'azienda Choren ha trovato il modo di trasformare scarti di lavorazione agricola e residui boschivi non in bioetanolo, ma in biodiesel. Materiali che permettono al bilancio energetico di essere assolutamente in attivo (si parla di riduzione delle emissioni di CO2 del 90%) senza creare competizione tra colture energetiche e colture alimentari. L'obiettivo per il primo ano di attività è la produzione di 18 milioni di litri di combustibile.

Traguardi ambiziosi. In Italia ovviamente siamo ancora lontani dal possedere le conoscenze per mettere in piedi un'impresa simile. "Se alla data del 2020 anziché il 10% stabilito dall'Europa riusciremo a produrre il 3% del biocarburante di cui abbiamo bisogno lo considererei già un successo - spiega ancora il professor Venturi - Nel generale ritardo la ricerca è forse quella messa meno peggio".

I segreti delle alghe. All'Università politecnica delle Marche si sta cercando ad esempio di capire se una mano a risolvere la crisi ambientale possa arrivare dalle alghe. "Abbiamo monitorato sia le specie di acqua dolce che di mare per capire quali sono le più adatte all'estrazioni di oli da trasformare in biodiesel - racconta il professor Mario Giordano, docente di fisiologia vegetale - Il passo successivo è stata l'individuazione dei metodi di coltura in grado di esaltare l'oleogenesi degli organismi. Ora possediamo un ventaglio di possibili soluzioni, ma mancano i soldi per passare dalla sperimentazione in laboratorio a quella in un vero impianto pilota".

Non bisogna generalizzare. In attesa che arrivino i fondi e che anche da noi si possa iniziare a parlare concretamente della produzione di biocarburanti di seconda generazione, conviene attenersi alla lista dei buoni e dei cattivi stilata dalla ricerca coordinata da Venturi. Ma con un avvertenza essenziale. "L'importante - sottolinea il professore - è non generalizzare, anche perché i costi energetici e ambientali di ogni specie cambiano molto spostando le coltivazioni anche di poche decine di chilometri con il variare della qualità del terreno e del clima: far crescere il granturco a Forlì non è come crescerlo a Piacenza".

Una classifica ancora parziale. "I due sorghi che risultano 'vincitori' - aggiunge Lorenzo Barbanti, un altro dei firmatari della ricerca - per il momento possono essere usati prevalentemente per produrre energia termica e non biocarburanti, allo stesso modo bisogna tenere conto del valore dei residui delle lavorazioni e delle capacità di 'carbon sink' (ovvero di fissare l'anidride carbonica) delle coltivazioni, fattori che questo primo lavoro non ha preso in considerazione, ma che per il futuro rappresentano le soluzioni più interessanti grazie a piante pluriennali come la canna comune, il panico, il miscanto e il cardo".

(27 maggio 2008)

martedì, marzo 25, 2008


Su a nord c'è una spiaggia, pare che sia una delle più belle, anzi la più bella dell'isola. E che quando c'è il sole la sabbia sia bianchissima ed il mare azzurro che di più non si puo'.
Dopo tre mesi e passa sono riuscito ad accompagnare l'escursione che ci va saltando per una volta le testuggini giganti, quindi mi sembra giusto farvi vedere almeno una foto.