giovedì, maggio 29, 2008

Nel 2007 tutti e due i dati a favore del vento. E tra il 2008 e il 2012
la produzione effettiva sarà di due volte e mezza superiore

Nuovi impianti ed energia prodotta
L'eolico ha sorpassato il nucleare

Negli Stati Uniti, il 30 per cento della potenza installata viene dall'eolico
In attesa dei reattori di quarta generazione il contributo dell'atomo scenderà
di ANTONIO CIANCIULLO


Nuovi impianti ed energia prodotta
L'eolico ha sorpassato il nucleare" width="230">

ROMA - Il 2007 è stato l'anno del sorpasso: a livello globale, dal punto di vista dei nuovi impianti, l'eolico ha battuto il nucleare. L'anno scorso sono stati installati 20 mila megawatt di eolico contro 1,9 mila megawatt di energia prodotta dall'atomo. E' un trend consolidato da anni e destinato, secondo le previsioni, a diventare ancora più netto nei prossimo quinquennio. Ma non basta. Per la prima volta l'eolico ha vinto la gara anche dal punto di vista dell'energia effettivamente prodotta. I due dati non coincidono perché le pale eoliche funzionano durante l'anno per un numero di ore inferiore a quello di impianto nucleare e dunque, a parità di potenza, producono meno elettricità.

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"La novità è che, anche tenendo conto di questo differenziale di uso, nel 2007 l'eolico ha prodotto più elettricità del nucleare", spiega Gianni Silvestrini, direttore del Kyoto Club. "E gli impianti eolici che verranno costruiti nel periodo 2008 - 2012, quello che chiude la prima fase degli accordi del protocollo di Kyoto, produrranno una quantità di elettricità pari a due volte e mezza quella del nuovo nucleare. Se poi nel conto mettiamo anche il solare fotovoltaico e termico possiamo dire che, tra il 2008 e il 2012, il contributo di queste fonti rinnovabili alla diminuzione delle emissioni serra sarà almeno 4 volte superiore al contributo netto prodotto dalle centrali nucleari costruite nello stesso periodo".

La tendenza è consolidata anche dal risveglio del gigante americano. Il 30 per cento di tutta la potenza elettrica installata durante il 2007 negli Usa viene dal vento e il dipartimento federale dell'energia prevede che entro il 2030 l'eolico raggiunga negli States una quota pari al 20 per cento dell'elettricità creando un'industria che, con l'indotto, darà lavoro a mezzo milione di persone. E' un dato in linea con l'andamento di paesi europei come la Danimarca (21 per cento di elettricità dall'eolico), la Spagna (12 per cento), il Portogallo (9 per cento), la Germania (7 per cento).

Nonostante le scelte dell'amministrazione Bush, che ha incentivato con fondi pubblici la costruzione di impianti nucleari, negli Stati Uniti l'energia dall'atomo resta invece ferma, sia pure a un considerevole livello, da trent'anni: l'ultimo ordine per una nuova centrale risale al 1978. Nell'aprile scorso sono stati annunciati impegni per 38 nuovi reattori nucleari, ma è molto probabile che il numero scenda drasticamente, come già è avvenuto in passato, nel momento in cui si passa alla fase dei conti operativi: le incertezze legate ai costi dello smaltimento delle scorie, ai tempi di realizzazione e allo smantellamento delle centrali a fine vita hanno rallentato la corsa dell'atomo.

In attesa della quarta generazione di reattori nucleari, che però deve ancora superare scogli teorici non trascurabili e non sarà pronta prima del 2030, le stime ufficiali prevedono una diminuzione del peso del nucleare nel mondo. La Iea (International Energy Agency) calcola che nel 2030 la quota di elettricità proveniente dall'atomo si ridurrà dall'attuale 16 per cento (è il 6 per cento dal punto di vista dell'energia totale) al 9-12 per cento.

(23 maggio 2008)

Si punta ai impianti di terza generazione per coprire il 10% dei consumi nazionali

Quattro centrali entro il 2020
Ecco il piano nucleare dell'Enel

Una legge delega, poi l'individuazione dei siti e dell'area per lo stoccaggio
Per la gestione anche l'opzione del consorzio con le altre aziende produttrici
di MARCO PATUCCHI


Quattro centrali entro il 2020
Ecco il piano nucleare dell'Enel" width="230">

La centrale nucleare Enel di Caorso

ROMA - Quattro centrali di terza generazione che nel 2020 copriranno almeno il 10% dei consumi di energia in Italia, vale a dire 6000 megawatt, più il sito per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Un progetto gestito o dalla sola Enel o da un consorzio guidato dal gruppo pubblico e composto dalle altre aziende produttrici (Edison, Eni, Sorgenia, le ex municipalizzate...) e dalle industrie energivore. Il tutto in un quadro normativo certo e definito.

La "ricetta" dell'Enel per il ritorno al nucleare è ormai pronta: l'amministratore delegato del colosso elettrico, Fulvio Conti, la presenterà al governo nei prossimi giorni consegnando un piano articolato al quale i tecnici del gruppo lavorano ormai da qualche mese e che, ora, si inserirà nel solco dell'accelerazione impressa dal ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola. "Entro cinque anni la prima pietra delle nuove centrali nucleari italiane", è l'impegno del ministro annunciato giovedì all'assemblea di Confindustria, e il progetto dell'Enel stima una tabella di marcia teorica che si spalma su nove anni: due per l'allestimento del contesto normativo, due per l'iter delle autorizzazioni, quattro per la costruzione e uno da conteggiare per eventuali ritardi in corso d'opera.

La tecnologia indicata è quella del nucleare di "terza generazione migliorata", dal momento che i vertici dell'Enel non vedono prospettive temporali praticabili per le centrali di quarta generazione (quelle, per intenderci, che non produrranno scorie radioattive); verrebbe sfruttata al meglio, inoltre, la competenza tecnologica acquisita dagli uomini del gruppo nel corso degli ultimi anni al di fuori dall'Italia, ovvero in Slovacchia attraverso la Slovenske Elektrarne, in Spagna attraverso l'Endesa e in Francia con la partecipazione al progetto Epr.

Il piano si dispiega su tre livelli. Innanzitutto quello normativo, con la previsione di una legge delega che fissi il contesto nel quale poi collocare singoli provvedimenti su autorizzazioni e controlli. "Una legge - è la tesi espressa a più riprese da Conti - che, modificando il titolo V della Costituzione (ripartisce le competenze tra Stato ed enti locali, ndr) presenti a Comuni e Regioni un percorso ben definito. Si tratterebbe, in sostanza, di riportare le scelte strategiche al livello più alto della politica, cioè al Parlamento e non alla singola amministrazione locale, completando inoltre la filiera del nucleare con il collegamento a università e alla ricerca".

Il secondo livello del progetto riguarda l'identificazione delle zone del Paese dove dislocare le centrali e il sito per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Enel nel documento non fa nomi, lasciando la scelta ad una parte terza - dunque, governo e Parlamento - alla quale vengono comunque sottoposti i criteri classici di valutazione utilizzati a livello internazionale (rischi sismici e di esondazione, densità abitativa). In questo senso, la pole position spetterebbe ai territori che già ospitano impianti nucleari (quelli realizzati e poi disattivati dal referendum del 1987 - Latina, Trino, Garigliano, Caorso - o bloccati in corso d'opera, come Montalto), mentre per quanto riguarda il sito di stoccaggio delle scorie, i ragionamenti dei tecnici non escludono la scelta di un impianto provvisorio, lasciando inoltre sul tavolo sia l'opzione dell'interramento che quella del deposito in superficie.

Terzo livello, infine, sugli aspetti finanziari. Il piano non fissa una stima certa sul costo complessivo del progetto, mettendolo in relazione alle varie opzioni tecnologiche attualmente a disposizione dell'Enel: da quella nipponico-americana della Westinghouse (utilizzata in Spagna), a quella francese dell'Epr, a quella russa presente in Slovacchia. Stesso discorso per il problema delle coperture assicurative e delle formule di finanziamento. Un'aleatorietà finanziaria che caratterizza il piano di Enel, ma non il report diffuso ieri da Ubs: secondo la banca svizzera, l'approdo dell'Italia al nucleare entro il 2020-23 comporterebbe per il gruppo controllato dal ministero dell'Economia un aumento del valore nominale di 2 miliardi di euro ogni 1.000 megawatt di potenza installata. Vale a dire un beneficio di 0,1 euro ad azione per i soci Enel.


(24 maggio 2008)

Sul Lago Natron si riproducono i tre quarti della popolazione mondiale di questi uccelli
I progettisti indiani: "Lo faremo a 35 km dal sito". Gli ambientalisti: "Moriranno lo stesso"

Tanzania, la salina della discordia
un milione di fenicotteri a rischio

di CRISTINA NADOTTI




Tanzania, la salina della discordia
un milione di fenicotteri a rischio"

Fenicotteri sul Natron

Per il loro piumaggio e la loro grazia i fenicotteri in Africa sono il simbolo di quanto è puro e incontaminato. Il regno assoluto di una specie a forte rischio di estinzione, il fenicottero minore, è il lago salato Natron, in Tanzania, vicino al confine con il Kenya lì vivono e si riproducono i tre quarti della popolazione mondiale di questi uccelli, approfittando di un habitat troppo caustico per la maggior parte dei loro predatori. Si parla di una popolazione di un milione di pennuti. E proprio lì sta per sorgere un'industria di produzione del carbonato di sodio che potrebbe distruggere questo ambiente. Le associazioni ambientaliste non hanno dubbi: fabbrica e benessere dei fenicotteri sono incompatibili, ma il governo di Dar el Salaam non vuole rinunciare ai proventi di un impianto industriale.

Il progetto a partecipazione indiana. L'industria chimica nascerà da una compartecipazione tra lo stato africano e la compagnia indiana Tata Chemicals. Gli impianti sorgeranno a 35 chilometri dalle rive del lago, cosa che, secondo i rappresentanti dell'agenzia tanzaniana per la promozione allo sviluppo, basterà a proteggere i fenicotteri. Gli ambientalisti argomentano però che il problema non è tanto la fabbrica in sé, quanto l'utilizzo delle lago. Le acque del Natron - unico luogo di riproduzione del fenicottero minore nell'Africa orientale da 45 anni - hanno, come quelle di tutti i laghi salati, un delicato equilibrio chimico: il loro utilizzo a scopi industriali verosimilmente ucciderà le alghe, che sono il principale cibo dei fenicotteri e danno loro il caratteristico piumaggio rosa.

Proteggere gli animali, assicurano dal governo, è la prima preoccupazione, visto che il lago Natron è una delle attrazioni turistiche del Paese. "Ci stiamo impegnando per provare scientificamente che la produzione di carbonato di sodio non danneggerà il lago, che ha in effetti una sua capacità di rigenerarsi".

Un prodotto altamente inquinante. Il carbonato di sodio o carbonato neutro di sodio (Na2CO3) è noto da millenni e usato per produrre il vetro e come ingrediente nei detersivi. Per secoli è stato ricavato, in forma abbastanza impura, da alcuni laghi salati o dalle ceneri delle piante. Nella storia degli agenti inquinanti il carbonato di sodio ha un triste primato: i primi movimenti di protesta popolare e le prime leggi di difesa dell'ambiente nacquero proprio contro le industrie chimiche che lo producevano. L'Alkali Act fu, nel 1863, la prima legge inglese contro l'inquinamento atmosferico provocato dall'industria chimica, e nacque proprio contro una fabbrica che produceva il carbonato di sodio.

Le ricerche scientifiche sui fenicotteri. Uno studio pubblicato lo scorso marzo dall'Università di Leicester, in Gran Bretagna, ha già dimostrato quanto sia delicato l'ecosistema dei fenicotteri. "I laghi in cui questi uccelli prosperano in Africa - dice il biologo David Harper - non sono toccati da attività umane. Al contrario, la morte improvvisa di alcune colonie di fenicotteri in laghi dell'Africa Orientale negli ultimi 15 anni è da attribuire alla concentrazione di industrie in queste zone". Lo studio di Harper ha però individuato anche un'altra particolarità. I fenicotteri vivono, oltre che in Africa principalmente nella Rift Valley, anche in Pakistan e India. "È stato per me un vero shock vedere i posti in cui le colonie si stabiliscono in India - riferisce Harper - i fiumi e i laghi in cui vivono sono talmente inquinati da industrie e attività umane che la puzza si sente a migliaia di chilometri di distanza, eppure i fenicotteri sono di uno splendido colore rosa e i nostri rilevamenti mostrano che godono di ottima salute".

Il gruppo dell'Università di Leicester sta ora cercando nuovi fondi per capire meglio come mai i due ambienti possano creare situazioni tanto diverse, ma c'è già un primo elemento da cui partire: la caratteristica dei laghi africani. Le acque dolci di Kenya e Tanzania hanno, infatti, una maggiore concentrazione di carbonato di sodio, proprio quello che l'industria del lago Natron vuole estrarre.

Una battaglia aperta. In Tanzania si è già costituito un gruppo di associazioni ambientaliste, il "Lake Natron Consultative Group" che ha promesso di portare avanti in tutti i modi la battaglia contro la costruzione dell'industria. Per Paul Matiku, dell'associazione "Nature Kenya", i fenicotteri del lago Natron potrebbero estinguersi in cinque anni se il loro habitat sarà distrutto. "Mi chiedo quale sia l'interesse del governo - sottolinea - il turismo naturalista è uno dei primi introiti per Kenya e Tanzania, se uccideremo i nostri animali lo metteremo a rischio".
Non è un caso che a parlare sia un keniano: proprio alle popolazioni di fenicotteri del Kenya si riferiscono gli studi sulla moria di animali fatti dal biologo inglese.
I gruppi ambientalisti hanno in progetto il finanziamento di studi approfonditi sui costi e benefici del programma industriale vicino al lago Natron. È chiaro che la battaglia si combatterà sul piano economico: il governo sottolinea che la fabbrica darà lavoro a 100 persone e fornirà alla Tanzania una materia prima a costi minori, visto che al momento il sodio carbonato è comprato dal Kenya. Si tratterà di vedere se gli ambientalisti riusciranno a dimostrare che i fenicotteri sono un prodotto che vale più di una materia prima di uso industriale.

(6 maggio 2008)

Studio dell'Università di Bologna sulla sostenibilità delle colture energetiche
Ideali quelle che non fanno consumare acqua e non alterano la produzione di alimenti

Biocarburante? Solo se economico
Sì al sorgo, no a colza e girasole

Dalla Germania la seconda generazione: bioetanolo dalla cellulosa degli scarti boschivi
L'esperto: "Giusto sapere cosa conviene all'ambiente, ma il caro-cibo ha altre cause"
di VALERIO GUALERZI


Biocarburante? Solo se economico
Sì al sorgo, no a colza e girasole" width="230">

Etanolo da mais

ROMA - I buoni da una parte, i cattivi dall'altra, come si faceva una volta sulla lavagna di scuola. Su una colonna il sorgo da fibra e il sorgo zuccherino, le colture che possono essere trasformate in energia dando davvero una mano all'ambiente, perché al contrario di altre crescono in ambienti molto aridi e generano prodotti non utilizzabili dalla catena alimentare; sull'altra colonna la colza, le barbabietole e il girasole, che per crescere hanno bisogno di una quantità di acqua, concimi ed energia tali da rendere il gioco molto più costoso della candela. In mezzo, con risultati variabili ma il rischio di entrare in conflitto con la produzione di cibo, i cereali come il grano, l'orzo e il mais.

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Sul banco degli imputati. A realizzare la classifica è uno studio dell'Università di Bologna ancora inedito che verrà presentato al Congresso della Società Europea di Agronomia in programma a settembre. La ricerca arriva in un momento quanto mai opportuno, con la corsa ai biocarburanti decisa dall'Unione Europea e dall'amministrazione Bush sotto processo con l'accusa di essere responsabile della fiammata nei prezzi dei generi alimentari.

La Piattaforma biofuels. A coordinare lo studio è stato il professor Gianpietro Venturi, docente di Agronomia generale e colture presso l'ateneo bolognese Alma Mater e presidente della Piattaforma italiana per i biocarburanti, una struttura creata su indicazione dell'Ue per organizzare le sinergie tra tutti i protagonisti della filiera: agricoltori, mondo scientifico, industria e istituzioni.

Gli orientamenti europei. "A leggere le cifre senza pregiudizi - spiega il professor Venturi - penso si possa affermare con serenità che la spinta per la diffusione di bioetanolo e biodiesel sono un fattore molto marginale nel recente boom dei prezzi alimentari. I motivi della fiammata sono altri, i maggiori consumi di Cina e India e una sequenza di fattori climatici negativi. Ciò non toglie che il pericolo di azzerare i vantaggi ambientali dei biocarburanti puntando su colture sbagliate esiste. Ne è consapevole la stessa Unione Europea, alla quale consegneremo le nostre conclusioni. Bruxelles sta discutendo infatti di fissare al 50% la quantità di anidride carbonica non immessa nell'atmosfera come soglia minima di emissioni risparmiate per dichiarare un biocarburante sostenibile. Allo stesso modo sta pensando di stabilire che il 50% del biocarburante utilizzato in Europa (l'ambizione della direttiva è arrivare al 10% dei consumi entro il 2020) debba essere di seconda generazione".

Obiettivo seconda generazione. Per "seconda generazione" si intende prevalentemente l'estrazione di bioetanolo dalla cellulosa degli scarti boschivi e di piante "povere", un procedimento ancora in via di perfezionamento, ma sul quale vengono riposte grandi aspettative. In Germania recentemente è stato aperto uno dei primissimi impianti di questo genere al mondo. Anzi, in un certo senso potrebbe essere definito persino di terza generazione, visto che nello stabilimento inaugurato dalla cancelliera Angela Merkel a Freiberg, l'azienda Choren ha trovato il modo di trasformare scarti di lavorazione agricola e residui boschivi non in bioetanolo, ma in biodiesel. Materiali che permettono al bilancio energetico di essere assolutamente in attivo (si parla di riduzione delle emissioni di CO2 del 90%) senza creare competizione tra colture energetiche e colture alimentari. L'obiettivo per il primo ano di attività è la produzione di 18 milioni di litri di combustibile.

Traguardi ambiziosi. In Italia ovviamente siamo ancora lontani dal possedere le conoscenze per mettere in piedi un'impresa simile. "Se alla data del 2020 anziché il 10% stabilito dall'Europa riusciremo a produrre il 3% del biocarburante di cui abbiamo bisogno lo considererei già un successo - spiega ancora il professor Venturi - Nel generale ritardo la ricerca è forse quella messa meno peggio".

I segreti delle alghe. All'Università politecnica delle Marche si sta cercando ad esempio di capire se una mano a risolvere la crisi ambientale possa arrivare dalle alghe. "Abbiamo monitorato sia le specie di acqua dolce che di mare per capire quali sono le più adatte all'estrazioni di oli da trasformare in biodiesel - racconta il professor Mario Giordano, docente di fisiologia vegetale - Il passo successivo è stata l'individuazione dei metodi di coltura in grado di esaltare l'oleogenesi degli organismi. Ora possediamo un ventaglio di possibili soluzioni, ma mancano i soldi per passare dalla sperimentazione in laboratorio a quella in un vero impianto pilota".

Non bisogna generalizzare. In attesa che arrivino i fondi e che anche da noi si possa iniziare a parlare concretamente della produzione di biocarburanti di seconda generazione, conviene attenersi alla lista dei buoni e dei cattivi stilata dalla ricerca coordinata da Venturi. Ma con un avvertenza essenziale. "L'importante - sottolinea il professore - è non generalizzare, anche perché i costi energetici e ambientali di ogni specie cambiano molto spostando le coltivazioni anche di poche decine di chilometri con il variare della qualità del terreno e del clima: far crescere il granturco a Forlì non è come crescerlo a Piacenza".

Una classifica ancora parziale. "I due sorghi che risultano 'vincitori' - aggiunge Lorenzo Barbanti, un altro dei firmatari della ricerca - per il momento possono essere usati prevalentemente per produrre energia termica e non biocarburanti, allo stesso modo bisogna tenere conto del valore dei residui delle lavorazioni e delle capacità di 'carbon sink' (ovvero di fissare l'anidride carbonica) delle coltivazioni, fattori che questo primo lavoro non ha preso in considerazione, ma che per il futuro rappresentano le soluzioni più interessanti grazie a piante pluriennali come la canna comune, il panico, il miscanto e il cardo".

(27 maggio 2008)